Beautiful Boy, la storia di un padre e di un figlio
Beautiful Boy è l’adattamento cinematografico del libro scritto da David Sheff e ispirato alla travagliata esperienza di tossicodipendenza vissuta da suo figlio Nicholas.
Nic Sheff è un ragazzo di sedici anni che vive a San Francisco con il padre David (Steve Carell), stimato giornalista freelance.
I genitori di Nicholas sono separati da quando è piccolo e da allora il ragazzo sceglie di andare a vivere con il padre con il quale instaura un rapporto dai tratti materni: viscerale, simbiotico.
Alla coppia formata da David e Nic si affiancheranno dopo qualche tempo la futura seconda moglie del padre, Karen, più madre che matrigna, e i figli nati dall’unione tra i due: Jasper e Daisy.
Il ritratto è quello di una famiglia solida e solidale nella quale il problema di un membro diventa immediatamente il problema dell’intero nucleo. David e Karen sono i tipici rappresentanti di una classe borghese medio alta: lei è una pittrice, lui scrive.
La fragilità di Nicholas
Apparentemente questa combinazione di beni materiali e onesto affetto familiare possono essere considerati dallo spettatore elementi sufficienti per consentire ai più un’esistenza morbida e senza strappi.
Così non è per Nicholas, la cui ricettività al mondo è talmente sviluppata da non riuscire a vivere serenamente se non con l’ausilio di droghe e alcol.
È troppo sensibile questo ragazzo, interpretato da un consumato Timothée Chalamet, fuori luogo in un’America che spinge alla competitività e insinua nei suoi figli il seme dell’ambizione.
Nicholas è altro: ama la poesia, disegnare, raccontarsi, più connesso con se stesso che con l’ambiente che lo circonda.
Qualità e limiti della regia di Felix Van Groeningen
Sebbene possa correre il rischio di scadere nella biografia melensa, Beautiful Boy tenta di fare luce su un consistente spaccato della società statunitense e ha il merito di non esaurirsi nella narrazione delle fragilità di Nicholas ma di parlare anche di chi, come David, cerca di aiutarlo, talvolta fallendo.
Il limite della regia di Felix Van Groeningen risiede nella tendenza a voler massimizzare anche ciò che naturalmente produce empatia nel pubblico; caratteristica già riscontrata nel precedente lavoro del cineasta belga “Alabama Monroe- Una storia d’amore“.