Cargo rappresenta l’eccezione in un cinema fin troppo intaccato da stereotipi. Si distingue e si destreggia tra luoghi comuni e cliché evitandoli o rinnovandoli. Rappresenta un nuovo modo di approcciarsi al genere apocalittico. Ecco la nostra recensione.
Pochi film hanno l’onore di poter essere ricordati come restauratori di un cinema saturo di stereotipi e cliché di genere. Nell’ultima decade il genere post-apocalittico è stato sfruttato, spremuto fino al midollo, portando fin troppo spesso a risultati che sembravano diversi alla base, ma che si sono rivelati uno la copia dell’altro. Cargo, nuovo film originale Netflix con protagonista Martin Freeman, è una di quelle pellicole che non innova, bensì rinnova. Ma andiamo a vedere il perché.
Pensare e ripensare
Cargo non è sicuramente uno di quei film dalla trama complessa e non cerca minimamente di esserlo. La storia raccontata è quella di una famiglia dilaniata da un’epidemia che è costretta a viaggiare verso un luogo sicuro; un padre disposto a tutto pur di proteggere sua figlia; una cultura che torna alle origini; una corsa contro il tempo per salvare la vita dell’individuo e non dell’umanità. Ed è proprio questo uno degli elementi che convince di Cargo: la continua ricerca del singolo, il continuo raccontare della vita di pochi. Non sappiamo come abbia avuto luogo l’epidemia, non sappiamo cosa sia successo al resto del mondo, non abbiamo informazioni di contorno. Vediamo tutto con gli occhi delle persone che seguiamo nella vicenda. Veniamo gettati nel racconto senza il benché minimo contesto. Questo si costruirà lentamente insieme alla caratterizzazione dei personaggi.
È un percorso tutto sommato rettilineo. “Tutto sommato” perché ogni tanto si assiste a dei balzi temporali poco chiari e a qualche scena che si risolve in modo un po’ troppo frettoloso, il che reca un certo scombussolamento. Però questi elementi abbracciano lo spirito del film: confuso, incerto, enigmatico. Un film che non ha paura di attingere a piene mani dalla cultura popolare e riscrivere uno dei dogmi del cinema orrorifico, ovvero l’apocalisse zombie. L’immagine del non-morto viene completamente rivista, con comportamenti tanto bizzarri quanto terrificanti. E ciò che stupisce maggiormente è che questi hanno un ruolo relativamente marginale all’interno della pellicola, diventando sempre di più un elemento compositivo. L’attenzione rimane sempre sui vivi, sul loro modo di sopravvivere e sulla cultura che retrocede terrorizzata dinanzi ad ogni minaccia. Un po’ come sta cercando di fare la serie tv The Walking Dead da anni, ma con risultati poco entusiasmanti. Qui si sente quel senso di impotenza, di rassegnazione all’inevitabile. La speranza viene relegata solo a contorno di una più cruda realtà.
Decivilizzazione
Cargo sorprende anche dal punto di vista tecnico. La regia ci trasporta, sempre più barcollante, nel cuore di un’Australia rudimentale, selvaggia e “contaminata”. Le tonalità calde delle aride lande desolate punteggiate da qualche tocco di verde dovuto alla vegetazione prendono sempre più il sopravvento sul freddo incedere delle acque fluviali presenti durante i primi minuti. Un po’ come se il contagio crescesse insieme alla pellicola, per poi tornare sui suoi passi per qualche battuta e, infine, riprendere la sua via verso la conclusione. Ad accompagnarci in questo viaggio estenuante c’è anche una colonna sonora degna di nota, orchestrata da un montaggio serrato e preciso. Tutti questi elementi aiutano molto la forza espressiva del film che, altrimenti, sarebbe pressoché nulla.
Cargo
Conclusioni
Cargo non è assolutamente un film esente da difetti. Tuttavia, riesce a fare ciò che il cinema non ha più il coraggio di fare da molto tempo: pensare. Travolto da remake, reboot, sequel e prequel, lo spettatore non ha mai avuto così tanta scelta nel non scegliere. Sicuramente questo non è l'unico film che cerca di differenziarsi dal resto della cinematografia non solo grazie all'ausilio di un poster promozionale. Stiamo assistendo ad una nuova voglia di sperimentare anche nel mondo dei blockbuster, ma diversificarsi non significa essere per forza irriverenti e anticonvenzionali. Ci dimentichiamo sempre della più scontata delle scelte: la semplicità. Non servono colpi di scena finali. Non servono virtuosismi tecnici fuori dal comune. Basta una buona idea e delle persone che riescano a trasformare quell'idea in qualcosa di concreto. Senza idee, il cinema sarebbe "sempre lo stesso film".