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I cinquant’anni del Sessantotto: guida ai 10 film che hanno segnato un’epoca

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5) Hollywood Party di Blake Edwards

Peter Sellers e Claudine Longet scatenano il panico in "Hollywood Party" (1968)

Hrundi V. Bakshi, impacciato attore indiano di stanza a Hollywood, viene invitato per sbaglio a un party nella casa di un ricco produttore: la sua sola presenza scatenerà un disastro dietro l’altro e farà a pezzi il moralismo perbenista dell’alta società hollywoodiana. Il duo delle meraviglie Peter SellersBlake Edwards si riunisce dopo il grande successo de La Pantera Rosa e il risultato finale è una pietra miliare della comicità americana, una sequenza ininterrotta di gag a ritmo sincopato che si rifanno alla tradizione di Buster Keaton e strizzano l’occhio a Jacques Tati. La verve comica di Sellers, a cui il regista lasciò piena libertà d’improvvisazione, raggiunge qui un apice forse mai superato dall’attore, che con il suo Bakshi disintegra lo snobismo borghese dell’epoca fino a sfociare nel catastrofico finale, dove la villa del produttore viene sommersa dalla schiuma e invasa da un elefante decorato con disegni hippy e messaggi di contestazione sul dorso.

 

 

4) La notte dei morti viventi di George A. Romero

Duane Jones affronta l'orda di zombie in "La notte dei morti viventi" (1968)

Quando George A. Romero presentò la sua opera prima al Fultom Theatre di Pittsburgh nell’Ottobre del Sessantotto non poteva immaginare che le sue intuizioni cinematografiche, maturate dopo aver letto Io sono Leggenda di Richard Matheson, si sarebbero trasformate in uno dei film horror più iconici e influenti del Novecento. A fronte di un modesto budget di 114.000 dollari, il risultato finale è un’opera cupa e disturbante che non solo introduce al pubblico la figura dello zombie ma brilla come efficace esempio di opera militante in antitesi con le convenzioni delle majors. Dalla scelta controcorrente di mettere come protagonista un attore afroamericano alla metafora dei non morti cannibali come schiavi del capitalismo USA, La notte dei morti viventi dimostra ancora oggi come il cinema di genere sappia gettare uno sguardo critico sulla realtà e, nonostante la massiccia presenza di sequel e imitazioni, mantiene intatto il suo fascino lugubre e nichilista.

 

 

3) Rosemary’s Baby di Roman Polanski

I segni del diavolo sul corpo di Mia Farrow in "Rosemary's Baby" (1968)

Un altro horror unico nel suo genere spicca tra le opere più importanti del Sessantotto, tanto per la sua valenza artistica quanto per le sanguinose vicende che negli anni lo hanno bollato come film maledetto. Riprendendo le fobie condominiali del precedente Repulsion, Roman Polanski imbastisce una fiaba nera spaventosamente ambigua, in cui reale e soprannaturale si mescolano gettando la povera Rosemary, e con lei il pubblico, in uno stato di panico genuino e persistente. Pur essendo lontano dalle contestazioni politiche e giovanili dell’epoca, il regista polacco si diverte a ritrarre la middle class americana come un gruppo di insospettabili satanisti pronti a tutto per preservare il loro status sociale, ma a rafforzare l’aura sinistra del film sono i due omicidi, avvenuti dopo l’uscita nelle sale, che legano Polanski a doppio filo con i Beatles, le più grandi icone culturali degli anni Sessanta: Sharon Tate, la moglie del regista, verrà uccisa nel 1969 dai seguaci di Charles Manson, convinto di aver ricevuto ordini da Satana dopo aver ascoltato Helter Skeltere lo stesso John Lennon verrà ucciso da Mark Chapman nel 1980 all’ingresso del Dakota Building, il signorile palazzo di New York dove il film è stato girato.

 

 

2) C’era una volta il West di Sergio Leone

Charles Bronson affronta gli sgherri di Henry Fonda in "C'era una volta il West" (1968)

Un magnate delle ferrovie disposto a tutto per espandere i propri domini e il suo sadico sicario che cerca di adeguarsi alla modernità. Un’ex prostituta ambiziosa con lo sguardo rivolto al futuro. Un fuorilegge dal cuore d’oro e un pistolero solitario che cerca vendetta prima di sparire verso l’orizzonte. Nell’anno di una nuova generazione determinata a tagliare i ponti con il passato, Sergio Leone prende un soggetto dei giovani Dario Argento e Bernardo Bertolucci per trasformarlo nell’elegia western definitiva, un racconto epico di dimensioni titaniche sulla morte del mito della Frontiera e la sua conseguente immortalità. Narratore di favole per adulti, come era solito autodefinirsi, il regista romano passa in rassegna gli archetipi che hanno definito la sua fantasia cinematografica e ne ritrae la maestosa uscita di scena in parallelo con l’avvento della ferrovia, strada scintillante di legno e acciaio proiettata verso il progresso. Reparto attoriale di massimo livello, ma a fare la parte del leone è Henry Fonda, qui al suo primo ruolo da antagonista.

 

 

1) 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick

Keir Dullea affronta il computer di bordo HAL9000 in "2001: Odissea nello spazio" (1968)

“Se qualcuno capisce il film alla prima visione, allora abbiamo fallito nel nostro intento”. L’apice cinematografico del Sessantotto porta inevitabilmente la firma di Stanley Kubrick, regista tra i più elogiati e rivisitati nella storia della settima arte, che partendo da un romanzo di Arthur C. Clarke prende un genere ai tempi ancora bistrattato  come la fantascienza e lo eleva a parabola aulica ed inquietante sulle complessità dell’evoluzione umana. Dalla comparsa dei primati sulla Terra alle avveniristiche spedizioni spaziali su Giove, la ricerca del monolito nero viene messa in scena con piglio documentaristico per poi trasformarsi in una fantasmagoria visiva e sonora sul conflitto tra uomo e macchina, l’insolvibile mistero della vita dopo la morte e l’inesauribile tensione dell’essere umano verso il progresso. Ricco di interrogativi senza risposta e di immagini dalla stordente bellezza, 2001: Odissea nello spazio non smette di alimentare la fantasia del pubblico dopo cinquant’anni e si prende con forza il titolo di opera più emblematica e stimolante prodotta in uno degli anni più cruciali nella storia del Novecento.

 

 

 

 

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