Wes Anderson torna alla regia dei film d’animazione con questo L’isola dei cani, stravagante pellicola in stop-motion sull’abbandono del migliore amico dell’uomo.
Dopo averci abituato a film dall’elevatissima cura artistica, Wes Anderson torna all’animazione. Erede dell’acclamato Fantastic Mr. Fox, ecco che arriva L’isola dei cani, summa dello stile inconfondibile del regista. In uscita il prossimo 17 maggio, abbiamo avuto la possibilità di vederlo in anteprima e la nostra recensione non ha tardato ad arrivare.
Questione di punti di vista
Wes Anderson è rinomato per le sue storie altamente surreali, fiabesche ed estremamente eloquenti. L’isola dei cani non fa eccezione. Un Giappone immerso in un futuro non troppo lontano. Un’epidemia altamente contagiosa che ha colpito i cani e spinto gli uomini a segregarli su un’isola utilizzata come discarica. Un bambino in cerca del suo amico a quattro zampe e un gruppo di cani disposti a tutto pur di fuggire da quel campo di prigionia. Questo e altro compone le vicende de L’isola dei cani. Però, per Anderson sarebbe stato tutto troppo semplice. Così ha scelto di giocare molto sul linguaggio (e di puntare su nomi quali Bryan Cranston, Edward Norton, Bill Murray, Jeff Goldblum, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Frances McDormand, Harvey Keitel e molte altre stelle di Hollywood).
La storia è raccontata dal punto di vista dei cani e, di conseguenza, riusciamo a comprenderli. Cosa che non accade, invece, per i personaggi giapponesi, tradotti solo sporadicamente da doppiatori simultanei presenti effettivamente sulla scena. Tra le due controparti, quindi, diventa tutto un gioco di sguardi e movenze per cercare di comunicare. Se guardato con occhio attento, si possono scorgere diverse tematiche nascoste che portano ad altrettante interpretazioni sommarie dell’opera. Quella più evidente è l’abbandono degli animali domestici, un problema sempre crescente. Però, Anderson aveva più di questo in mente. L’isola dove sono confinati i cani è una sorta di campo profughi costruito sull’immondizia e sui ricordi perduti. I cani vengono abbandonati a loro stessi, senza cibo né acqua. Devono lottare per la sopravvivenza. Impossibile non fare un parallelismo con l’attualissimo problema dei migranti, ammassati ai confini della società per evitare che “contagino” la società stessa. Inermi, cercano di comunicare senza risultati, bloccati dalle barriere linguistiche. Un tema, questo, che ritorna spesso e non sempre con un punto di vista positivo. Anderson equipara i due lati della bilancia. Analizza ogni aspetto senza tendere troppo verso l’uno o l’altro.
L’originale
La regia di Wes è inconfondibile. Bastano pochi fotogrammi per capire che un film gli appartiene. Composizioni al limite. Fotografia avvolgente e dai colori brillanti. Attenzione maniacale per ogni elemento del profilmico. Carrelli laterali che portano l’attenzione su un’altra sezione del set, quasi come se la scena fosse ripresa al di fuori di una casa delle bambole. Tutto questo è amplificato a dismisura in L’isola dei cani, in quanto, essendo privo di attori in carne e ossa o di set costruiti in studi cinematografici, i movimenti di camera sono illimitati. Tutto è creato esattamente come Anderson voleva che apparisse su schermo. I personaggi si muovono secondo le sue preferenze. Li dirige in modo fluido, complici delle animazioni veramente stupente e un dettaglio plastico mai visto prima. Poi la profondità di campo esasperata cara a Orson Welles, i dialoghi con primo piano e sguardo in macchina a ricordare i film di Yasujirō Ozu, le percussioni incessanti che accompagnano tutta la vicenda. Un banchetto di tecnicismi e nozioni cinematografiche che seguono come una foglia sul torrente il flusso ininterrotto della mente di Wes Anderson.
L'isola dei cani
Conclusioni
L'isola dei cani è l'antologia della carriera registica di Wes Anderson. Gli omaggi al cinema del passato,
uniti ad una narrazione non lineare e all'elevata presenza di momenti morti (che in una produzione classica sarebbero stati tagliati) lo rendono un film moderno sotto ogni punto di vista. Le tematiche dietro la facciata scanzonata e comica del film lo innalzano a critica sociale. Anderson dimostra che estremizzare porta solo sconforto e aggressività, anche se è la parte "buona" ad avere il controllo. Serve stabilità per avere uguaglianza.
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