
Ready Player One, nuovo film di Steven Spielberg, sta per uscire nelle sale italiane, ma abbiamo avuto l’occasione di vederlo in anteprima. Ecco il mondo videoludico secondo il regista più affermato della New Hollywood.
Verso la fine degli anni Sessanta, a New York, un gruppo di scapestrati amanti del mondo cinematografico si è “scontrato”. Tutti avevano lo stesso desiderio: dare nuova linfa vitale al cinema. Molto velocemente sono diventati una famiglia. Li chiamavano movie brats, “i ragazzacci del cinema”, quelli che sperimentavano con tutto e con tutti. Volevano un cinema nuovo, diverso da ciò a cui Hollywood aveva abituato il pubblico. Un cinema sporco e crudo, senza restrizioni. Storie amare di uomini comuni. Un gruppo che potrebbe sembrare destinato a sparire, dei visionari senza speranza. Invece, “quei visionari” hanno visto più lontano di chiunque altro dai tempi dei Lumiere. Rispondono al nome di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Brian De Palma, George Lucas e un certo Steven Spielberg. Loro hanno contribuito a delineare il cinema odierno più di chiunque altro. Il loro è un cinema autoreferenziale, che gioca con lo spettatore e lo sfida a trovare ogni più piccolo dettaglio proveniente dal mondo cinematografico e dai più disparati elementi della cultura pop. Chi guarda deve essere continuamente consapevole che quello che sta guardando è un film, non la realtà. Tutti hanno lasciato il loro segno indelebile sull’infinita pellicola della storia cinematografica, ma nessuno più di Spielberg. Incontri ravvicinati del terzo tipo, Lo squalo, E.T, Jurassic Park, Schindler’s List, Indiana Jones (in collaborazione con l’amico George Lucas) sono solo alcune delle sue opere. Un regista più attivo che mai, ancora al lavoro su diversi progetti e in uscita quest’anno con due film, il candidato all’Oscar The Post e l’adattamento cinematografico Ready Player One, tratto dal romanzo di Ernest Cline. Opere molto differenti, ma che raccontano due parti dissonanti di un autore consacrato.
Ritorno alla nostalgia
Spielberg è sempre stato un eterno fanciullo. Luogo comune di quasi tutti i suoi film è quella punta di innocenza, di spensieratezza tipica di un bambino. Questo a causa di un’infanzia difficile che lo tormenta da sempre. I film sono una sorta di cura, un modo per tornare bambino e vivere quella fanciullezza che gli è stata negata. In Ready Player One ritroviamo quello spirito. Uno spirito nostalgico, che guarda al passato con gran passione e rimpianto. Riempito fino all’orlo di citazioni riguardanti l’intero settore dell’intrattenimento, con particolare attenzione al mondo videoludico e cinematografico, il film intrattiene e si lascia seguire senza troppi problemi. Spielberg racconta a modo suo un futuro relativamente vicino, nel quale tutti passano gran parte del loro tempo in OASIS, un gioco in realtà virtuale dove si può essere tutto ciò che si vuole e dove l’immaginazione è l’unico limite. Wade, un normale ragazzo dei sobborghi della città di Columbus, e i suoi amici di gioco si imbarcheranno in un’avventura piena di pericoli per salvare OASIS dall’azienda IOI, intenzionata a lucrare sull’esperienza videoludica dei consumatori. La storia è ben sviluppata, con un intreccio soddisfacente e alcune ottime intuizioni. Tuttavia, a tratti risulta un po’ confusionaria e presenta i soliti momenti comici che di comico hanno ben poco. Ciò che si apprezza di più, però, sono proprio le citazioni stesse, alcune lampanti e volutamente distinguibili, altre nascoste nella vorticosa e spettinata regia.
Verso una Nuova New Hollywood?
Steven Spielberg adora sperimentare. Fu lui il primo a far muovere una sovrimpressione insieme alla macchina da presa con Incontri ravvicinati e sempre lui portò gli effetti visivi sul grande schermo con Jurassic Park nell’ormai lontano 1993. Questo Ready Player One non fa differenza. Infatti, più della metà del film è interamente ricreata al computer, con l’ausilio del motion capture, mentre il resto è girato in live action. Un bizzarro intreccio di diverse tecniche che si mescolano e si scindono di continuo. La regia, di conseguenza, si deve adattare. Creare il movimento di macchina con l’ausilio del computer comporta indubbiamente un numero potenzialmente infinito di possibilità registiche, ma è assente quell’elemento meccanico, quasi freddo e distaccato dell’attrezzatura fisica. Un esempio sono le scene più concitate create in computer grafica, dove l’elevato numero di oggetti a schermo e i movimenti secchi e veloci di Spielberg confondono e disorientano, portando lo spettatore a ricomporre la scena con una certa difficoltà. Fotograficamente è stato svolto un ottimo lavoro, grazie anche alle infinite possibilità offerte dalla CGI. Il commento musicale è forse la parte più nostalgica dell’intero film. In primo luogo perché vengono utilizzate canzoni provenienti direttamente dalla cultura popolare dagli anni Ottanta. In secondo luogo perché la colonna sonora composta appositamente per il film ricorda molto le vecchie pellicole del regista. Quindi, è presente una sorta di lotta interna. Quella tra nostalgia e innovazione. Una guerra che non potrà mai essere vinta.
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