Cinema

The Shape of Water: Recensione – Peculiare malinconia

Abbiamo visto in anteprima La forma dell’acqua – The Shape of Water, nuova fatica plasmata dalla mente del visionario Guillermo del Toro. Scopriamo insieme uno dei film favoriti per la corsa all’Oscar, senza spoiler.

Dopo il grande successo riscosso negli Stati Uniti, La forma dell’acqua – The Shape of Water sta per arrivare nelle sale nostrane. Manca meno di un mese, infatti, al rilascio della pellicola, fissato per il 14 febbraio, ma siamo riusciti a visionarlo in anteprima grazie a 20th Century Fox. Quindi, vi invitiamo ad “immergervi” insieme a noi in questa recensione (senza spoiler, ovviamente).

Una fiaba mesta

The Shape of Water è un film insolito per diversi aspetti, ma la storia si trova al comando di quest’insana avventura. Ciò di cui racconta è semplicemente la relazione amorosa tra due reietti della società. Entrambi presentano caratteristiche che li fanno apparire diversi agli occhi degli altri. Lei affetta da mutismo, lui uno strano essere marino. Eppure sono uguali, a volte anche migliori delle persone che li circondano. Provano amore, empatia, coraggio proprio come tutti, ma per il loro aspetto, per le loro caratteristiche, per le loro peculiarità, vengono messi da parte e, in qualche modo, visti come anormali. Ad unirli la totale assenza di relazioni verbali. I segni, le movenze, la musica. Questo è ciò che ha avvicinato i due sin dal primo momento. Il fatto di non essere compresi, di non venire “ascoltati” li accomuna più di ogni altra cosa. La creatura marina può dire di essere molto diversa da ciò che ci si aspetterebbe da un normale essere umano, ma in quella base governativa, lì nella tranquilla città di Baltimora, è il più umano tra tutti. Ciò che rende speciale questa fiaba ambientata agli inizi degli anni ’60 è proprio il continuo miscelarsi di generi e avvenimenti molto diversi tra loro e che, in qualunque altra produzione cinematografica, avrebbero stonato. C’è amore, ma anche inquietudine. Un continuo velo di ironia avvolge l’estrema drammaticità esplicita dell’opera. Il tutto diventa pura e sublime malinconia, che disorienta, ma tiene sempre attenti in quanto non si riesce a prevedere il repentino cambio di registro, simbolo, molto spesso, di risvolti importanti. Tuttavia, sembra mancare qualcosa. Forse una più approfondita caratterizzazione dei personaggi secondari o degli elementi che “completino” il pittoresco racconto.

Ad adornare il tutto troviamo delle ottime interpretazioni, tra le quali spiccano quelle di Sally Hawkins nei panni di Elisa, la protagonista, Michael Shannon in quelli del tormentato capo della sicurezza, antagonista della vicenda, e Octavia Spencer, amica e collega del personaggio principale. Inoltre, ci troviamo davanti ad un grande omaggio alla cinematografia. Dopo il meritato successo riscosso da La La Land di Chazelle, elegante e pomposa celebrazione del cinema musicale della prima metà del secolo scorso, molti registi stanno riscoprendo la voglia di omaggiare i grandi maestri passati. Cosa che già con l’avvento del cinema moderno era consona, ma che sta ritrovando nuova linfa vitale proprio in questi anni, dove la nostalgia e lo “sguardo al passato” attanagliano le nostre menti in cerca di un posto sicuro dove rifugiarsi, consce del fatto che è meglio rimembrare un passato già scritto che vivere in attesa di un futuro incerto. E così, come molti altri, del Toro gioca con lo spettatore, lo sfida a riconoscere ogni citazione, ogni omaggio. Lo punzecchia con un bastone per fargli tenere alta l’attenzione. Proprio questo fa il cinema moderno. Tiene attento il pubblico, lo intrattiene durante la visione, lo fa esaltare e immedesimare. Gli lancia delle domande e non gli dà risposta, proprio perché è lo spettatore a dover trovare il significato di quanto ha appena visto. E’ lo spettatore a dover trovare la forma.

Il velo gioioso

La storia, che di per sé è la parte, se vogliamo, più oscura, si giustappone al comparto tecnico. Non tanto alla regia di del Toro, sempre ordinata e simmetrica, ma alla fotografia, nonché al profilmico e alla colonna sonora. Ogni inquadratura è diversa dalla precedente. I colori brillanti e variegati danzano sullo schermo e si contrappongono tra loro. Scintillanti e, al medesimo tempo, cupi, riescono ad incarnare perfettamente lo spirito degli Stati Uniti dei primi anni ’60, afflitti dai vari conflitti razziali e dalle oscure trame della Guerra Fredda. Inutile dire che anche la scenografia riesce a far immergere completamente lo spettatore nello spirito dell’epoca. Molto apprezzata la volontà di ricreare tutto il possibile sul set, con la computer grafica praticamente relegata alla sola creatura. Come se la fotografia brillante e il profilmico allegro non siano abbastanza, in contrasto con le atmosfere singolarmente cupe della storia, ecco che subentra la colonna sonora. Composta da Alexandre Desplat, è allo stesso tempo familiare ed estranea alla pellicola. Le sonorità che rimandano alla Ville Lumière sembrano stonare con le strade notturne di Baltimora e, soprattutto con il racconto, ma, stranamente, ciò non accade. Tutte queste caratteristiche contribuiscono a creare il forte senso di malinconia espresso dal film. Una fiaba gotica accompagnata da una forte e sferzante anima bohemien.

The Shape of Water
8.5 Reviewer
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Pro
L'ottimo connubio tra ironia e drammaticità
Il ritmo incalzante e stabile
Le magistrali prove attoriali
La regia sobria ed elegante di del Toro
I forti contrasti tra comparto tecnico e diegesi
Contro
Si poteva osare di più con la storia
Manca un più marcato approfondimento di alcuni personaggi
Conclusioni
The Shape of Water è un ottimo film, confezionato alla perfezione. Una fiaba moderna e, per certi versi, inquietante. Ciò che stupisce è il forte senso malinconico che rimane al nostro fianco per tutta la durata della visione. Un esotico, seppur geniale, accostamento di vari elementi che recano una salda identità alla pellicola. Del Toro gioca con lo spettatore, lo stuzzica e lo sfida. Vuole vedere se sta porgendo attenzione, ma anche dimostrare che la sua storia vale la pena di essere raccontata. La storia di un mostro e di due amanti, coinvolti in una perenne fuga dalla società stessa, creatrice del bizzarro e del raccapricciante. L'uomo, convinto di essere nel giusto, presto diventa mostro e il mostro, convinto di essere nel torto, diventa uomo. Un'inversione di ruoli che da tempo viene sfruttata nel mondo cinematografico, ma mai prima d'ora raccontata in modo così leggiadro e armonioso. Ed è proprio questa la domanda posta da del Toro nella sua opera dall'aria moderna: "chi definisce il confine tra umanità e mostruosità?".
Noi stessi. Noi siamo gli artefici della società in cui viviamo. Noi l'abbiamo plasmata e noi ne rispondiamo. Siamo tutti convinti di non essere mostri e non esitiamo a puntare il dito contro l'inusuale. Non ci accorgiamo, però, che l'inusuale è il peculiare e, se ognuno di noi è peculiare, allora siamo, a modo nostro, tutti dei mostri. Padroni e allo stesso tempo prigionieri dei nostri stessi pregiudizi. Schiavi della nostra anima. Sudditi della nostra esistenza.
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Mattia Pescitelli

Tenace adoratore del mezzo cinematografico, cerco sempre un punto di vista fotografico in tutto ciò che mi circonda. Videogiochi, serie televisive, pellicole cinematografiche. Nulla sfugge al mio imparziale giudizio.

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Mattia Pescitelli

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