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“Il buco”: recensione della controversa pellicola ora su Netflix

È arrivato su Netflix il 20 marzo, sollevando una grande attenzione intorno a sé. “Il buco”, “El hoyo” in lingua originale, è il film spagnolo che sta facendo discutere tutto il mondo. 

L’idea dietro “Il buco” e perché non si smette di parlarne

È una pellicola spagnola horror-fantascientifica: il genere lo si capisce subito. Ed infatti l’anteprima europea è stata al Sitges – Festival internazionale del cinema fantastico della Catalogna, dove si è portato a casa quattro premi. Prima era stato molto applaudito al Toronto Film Festival ed ora è guardatissimo su Netflix, la piattaforma che l’ha acquistato e distribuito in tutto il mondo. “Il buco”, “The platform”, “El hoyo” o in qualsiasi modo lo si voglia chiamare è un film low-budget del regista Galder Gaztelu-Urrutia. La storia raccontata è quella di una prigione verticale, appunto il buco, in cui ogni livello è abitato da due ospiti che hanno potuto portare con sé un solo oggetto. Tra i criminali che scontano le loro pene ci sono anche persone entrate nella prigione volontariamente per i più svariati motivi. È il caso di Goreng (Iván Massagué), il protagonista. Addentratosi nel buco con il Don Chisciotte di Cervantes, voleva finalmente riuscire a leggerlo e nel frattempo smettere di fumare. All’inizio del film si sveglia al livello 48, il suo coinquilino gli spiega (non senza qualche reticenza) il funzionamento della struttura, e Goreng ha lentamente contezza dell’inferno in cui ha deciso di entrare.

Il funzionamento del buco

Si può mangiare una volta al giorno, attraverso una piattaforma che scende dal primo all’ultimo piano, fermandosi solo due minuti ad ogni livello. Non si può trattenere il cibo, altrimenti si rischia l’assideramento o l’incenerimento, tanto è il freddo o il caldo che si patiscono. Gli ultimi mangiano quello che è avanzato dai primi; nello specifico, gli ultimi muoiono. Dopo un mese trascorso ad uno stesso livello, tutti gli ospiti si risvegliano in un nuovo piano, in modo del tutto casuale. La collocazione non è frutto di particolari meriti o demeriti, ed è forse questo uno dei messaggi alla base de “Il buco”: tutti prima o dopo sperimentano la fame e la ricchezza. Pregano che quelli sopra lascino un po’ di cibo in più; si rimpinzano oltre il necessario quando possono permetterselo. Goran capisce l’assurdità del sistema, ma soprattutto comprende il messaggio della fantomatica Amministrazione che gestisce la struttura: se tutti mangiassero il necessario, con parsimonia, ci sarebbe cibo per ogni ospite del buco, dal primo all’ultimo piano.

Il protagonista è un eroe o un antieroe?

Ce lo si chiede durante tutto il film, quale sia la vera natura di Goran. Spinto da principi di altruismo e solidarietà (che gli permettono in diversi momenti di non morire), ad un certo punto viene fagocitato dal sistema del buco. Come se fosse l’allegoria di un mondo individualista, in cui sopravvive solo chi non soccombe davanti all’altro e la legge del più forte fa da padrona, anche il protagonista è vittima dell’Amministrazione. Anche lui si lascia andare allo spirito di “sopravvivenza ad ogni costo” , lasciando da parte la “solidarietà spontanea” che non riesce a nascere negli inferi della prigione verticale. Fino a quando diversi incontri lo risvegliano, e capisce che solo lui (con l’aiuto di qualcuno più pazzo, o forse più sano degli altri) può sovvertire il sistema e far arrivare il messaggio.

Il messaggio “è la panna cotta”

In realtà non lo è, ma “Il buco” insegna che bisogna credere in qualcosa per raggiungere il proprio obiettivo, anche a costo della vita. E allora l’unico modo è arrivare fino al livello più basso della prigione, cercando (spesso con la forza) di razionare il cibo tra i detenuti furiosi, per nutrire gli ultimi e salvare “la panna cotta”. Farla arrivare alla cucina, surreale nell’accortezza con cui prepara i manicaretti, e di conseguenza all’Amministrazione. Dimostrare che la solidarietà ha prevalso, spontaneamente o no. Che dire, di questo film? Che ci sono spunti molto interessanti, attori molto capaci, immagini molto forti. C’è anche tanto sangue, forse troppo, ma il “troppo” dipende dalla sensibilità dello spettatore. “Il buco” non smetterà di far parlare di sé. E speriamo possa servire anche a pensare a quello che ci circonda.

Veronica Antonelli

Laureata in Giurisprudenza, appassionata di cinema, vivo a Roma ma le mie radici sono a Rimini, città di Federico Fellini.

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Veronica Antonelli

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