Trust, la serie prodotta e parzialmente diretta dal vincitore del premio Oscar Danny Boyle, affascina e cattura. Rappresenta tutto ciò che dovrebbe essere una produzione televisiva e, per questo, è una delle migliori serie dell’anno.
Non c’è niente di più bello che trovare una serie che ti intrattenga dall’inizio alla fine, prodigandosi in un continuo crescendo. Trust è una di quelle serie. La creazione di Danny Boyle (vincitore del premio Oscar per il film The Millionare, ma anche regista dell’ormai cult Trainspotting) è la riprova che unire elementi provenienti dal mondo cinematografico con le basi della produzione televisiva può fare solo che bene, se fatto con criterio. Trust sembra proprio questo: un lunghissimo film che passa in un batter d’occhio. Andiamo a scoprire perché.
La regia che conta
Trust si distacca subito da tutto ciò che il piccolo schermo ci ha abituati a guardare. Il punto di vista canonico delle serie televisive, con statici campi e controcampi, non scompare, bensì si evolve e si avvicina al cinema moderno che tutti, direttamente o indirettamente, conosciamo. Le inquadrature sono insolite, ma estremamente efficaci e fresche. A volte si guarda la scena dal basso, altre di traverso, per poi passare ad una visione aerea e ritornare al punto di partenza. Un montaggio vorticoso, ma che non disorienta mai. La qualità in generale della regia ricorda molto più da vicino un film che non una serie tv. Si sono completamente sbizzarriti, passando da camera fissa a camera a mano con fluidità e una certa disinvoltura. Lascia che i personaggi ti guardino mentre stai curiosando nella loro vita. Ti scrutano con preminenza, quasi disgusto. Molto probabilmente questa è la serie con la regia più virtuosistica che sia mai stata creata. Quando pensi che possano averti fatto vedere ogni possibile punto di vista, ecco che ti sorprendono mostrandotene uno nuovo. Trust è una continua scoperta fino all’ultimo fotogramma.
Anima italiana
Trust è a tutti gli effetti una coproduzione anglo-italiana (ovviamente mediata dagli Stati Uniti). Infatti, gran parte della serie è ambientata in Italia, tra Roma e la Calabria, e i personaggi italiani sono effettivamente interpretati tutti da italiani. Tra i vari, quelli da citare assolutamente sono Giuseppe Battiston, Nicola Rignanese, Niccolò Senni e il superbo Luca Marinelli. Quest’ultimo ci offre l’interpretazione di una vita. È riuscito a portare sullo schermo un personaggio al limite della follia, un mafioso di provincia dalla forte calata calabrese che è sempre pronto a perdere la testa. Calmo, ma irascibile. Pianificatore, ma imprevedibile. Una di quelle interpretazioni che si fatica a dimenticare. Poi, naturalmente, c’è tutta la controparte inglese, tra cui spicca un odioso ma fenomenale Donald Sutherland nei panni dell’avido John Paul Getty. Le prove attoriali sono le fondamenta che sorreggono la pesantissima mole della serie. Se vogliamo, è la migliore produzione televisiva (in parte) italiana dell’anno, anche se Il Miracolo gli dà del filo da torcere. Sicuramente rientra tra le migliori di sempre.
Il feroce incedere della narrazione
Ciò che proprio non ci si aspetta una volta iniziata la serie è che, tutt’un tratto, Fletcher Chase (interpretato dal leggendario Brendan Fraser) si volti verso la camera e inizi a parlare direttamente allo spettatore. La rottura della quarta parete non è assolutamente una novità, anzi. È dalla nascita del cinema moderno che i cineasti tentano di far ricordare costantemente allo spettatore che ciò che sta guardando è un film. Tuttavia, qui è talmente decontestualizzato e inaspettato che lo ami sin dai primi secondi. Anche perché queste sono alcune delle sequenze migliori del film, dove regia, fotografia e montaggio non hanno limiti stilistici e sembrano vagare senza controllo, seppur sempre estremamente controllati. Si crea una sorta di caos calmo, per citare il film di Moretti. Lo sguardo fisso in macchina di Fraser ci interpella e, allo stesso tempo, il nostro lo “estorce” dalla scena, rendendolo lontano da tutto e da tutti. Fletcher diventa così sia parte della storia che divulgatore di essa. Una sorta di narratore semi-onnisciente che interviene sporadicamente, ma non per raccontare parti della storia che altrimenti sarebbero state tagliate, ma più che altro per costruire un contesto storico. Crea un ponte tra gli eventi e le inevitabili conseguenze.
Una storia vera
Sarà perché sono accadute, sarà perché vengono adattate ad un linguaggio cinematografico, ma le storie vere sono la maggior parte delle volte quelle che sorprendono e catturano maggiormente. Ovviamente non tutte vengono riadattate al meglio, ma il rapimento Getty raccontato in Trust funziona magnificamente, soprattutto per la spettacolare sceneggiatura scritta da Simon Beaufoy. Ogni puntata passa velocemente, anche troppo, ma non lascia insoddisfatti. Sono riusciti a bilanciare alla perfezione il tempo a disposizione per trattare ogni personaggio. La caratterizzazione di questi è pressoché immediata. Non ci sono particolari crescite e proprio per questo rimane fedele a ciò che racconta, ovvero le vite di persone testarde, boriose, troppo narcisiste per cambiare il loro modo di essere. Troppo presuntuose per ammettere la “sconfitta”. Il tutto sorretto da una certa leggerezza nel raccontare i fatti, che spesso si trasforma in irriverenza verso lo spettatore. Chi osserva deve essere consapevole che non sta guardando la “solita serie”. Deve capire fin da subito che se sta cercando il prodotto documentaristico che racconta in modo preciso ciò che è accaduto in quel fatidico 1973, ha sbagliato luogo. Per quello c’è Google.
Tra pioggia e sole
Come un velo, il profilmico è quell’elemento che completa e abbellisce l’intera serie. Dai costumi, alle location, agli oggetti di scena. Tutto è perfettamente coerente con quanto si sta guardando. A volte sembra di vedere due serie diverse: una ambientata in Inghilterra e l’altra nel Bel Paese. La prima è contraddistinta da una fotografia cupa, tendente ai colori freddi, caratterizzata da location dal sapore nobiliare, con grandi saloni incorniciati da finiture in legno e ampie vetrate che danno su vasti giardini afflitti dalla costante pioggia. La seconda è più accogliente, “casereccia”, con colori caldi che non lasciano passare neanche il più piccolo sentore di tetro. Gli spazi sono angusti, opprimenti, tipicamente italiani. Tutto sembra fermo nel tempo, incontaminato dalla frenetica vita civilizzata. Poi arriva quel momento in cui le due parti entrano inevitabilmente in collisione e lì ti rendi conto che, sfortunatamente, la serie sta per concludersi.
Per questo Trust cambierà il modo di vedere le serie tv. D’ora in avanti sarà difficile non paragonare (anche solo visivamente) le altre produzioni televisive a questa. Anche se non è stata accolta particolarmente bene dalla critica internazionale, in futuro potrebbe avere un ruolo molto importante nella ridefinizione dei confini tra televisione e cinema. Dopotutto, non sarebbe il primo prodotto criticato negativamente all’uscita, ma diventato un cult con il passare del tempo.
Visto che siamo arrivati fino a questo punto, vi lasciamo anche la nostra recensione, corredata da voto e conclusioni. Se volete rimanere aggiornati sul futuro delle serie tv, seguiteci su Facebook e iscrivetevi al nostro gruppo ufficiale.
Trust - Il rapimento Getty
Conclusioni
Trust è una serie che finalmente rischia tutto. Si differenzia dagli altri prodotti del piccolo schermo cercando un compromesso con i canoni del cinema. Coraggiosa, innovativa, irriverente. Questa serie porta una ventata d'aria fresca anche nel panorama italiano, valorizzando i nostri formidabili interpreti anche all'estero e facendo della nostra lingua parte dell'ambientazione, quasi come se fosse un personaggio a sé. La sua natura virtuosistica e estetica ne amplificano la grandezza. Non si incarica di raccontare la verità per filo e per segno, ma di parlare dell'avidità, dell'egoismo, dell'indifferenza non di un solo uomo, ma dell'umanità intera.