Enrico, valoroso cavaliere che, grazie alle sue imprese, non ha trovato la fama fino a che non ha scoperto di essere figlio di un signore abbastanza influente della Boemia, si appresta a compiere nuove, mirabolanti avventure in quel di Rattay.
Anno Domini 1403, Fiorente feudo di Rattay
Al cantar de lo gallo mi apprestai a indossar li indumenti per passeggiar nelle vie de lo feudo mio protettore. Sortito da li alloggi miei notai che lo giorno ridea soave a lo mattino. Montai con leggiadra compostezza su lo mio fedel destriero.
Le strade pullulavan di plebei. Maleodoranti, zozzi plebei. Un po’ mi facean pena, ma ora ero lo figliuol de lo secondo signore de la citade. Secondo, poiché ospitato da lo vero signore de la citade, ma si sa, dai lo braccio al tu’ vicino e arrafferà pure lo tu’ ronzino. Ordunque, arrivai a la taverna de la citade. Maleodorante, zozza taverna de la citade. A lo tavolo da giuoco mi attendea Roberto, de le sottane l’esperto.
Sembrava brillo fino a lo midollo. Una vittoria annunciata per ‘no talento de li dadi come me. Presi posto su la scomoda seduta e giuocai cento groschen. Roberto non comprendea donde si trovava e continuava a lanciar li dadi, perdendo ad ogni mano. In un sibilare di spada, la vittoria fu mia. Il mio sciocco compagno di giuochi prese la sconfitta in malo modo, si alzò da lo sgabello e cadde dopo un paio di passi arrancanti verso un altro uomo che avea scambiato per me. Annoiato da la visione di cotanta sciatteria, mi allontanai da lo feudo su la mia nobile cavalcatura e mi diressi verso un accampamento di farabutti di cui mi sarei dovuto occupare almeno una settimana pria di questa gelida giornata.
La pesante armatura, oltre a rendere lo trotto de lo cavallo al pari livello di un ristoro sotto lo martello battente d’un fabbro ungherese, gelava anche le mie povere membra, in quanto mio padre mi avea porto bastante denaro solo per acquistare la corazza. Sotto indossavo la tenuta da notte. Va detto, tuttavia, che accarezza la mia pelle come una dama de la corte di Svevia. Arrivato ne lo loco donde trovavan rifugio quei vili ratti degni de la più trasandata taverna viennese, mi chinai dietro li cespugli e mi apprestai a prenderli di sorpresa. Sciaguratamente, mi scoprirono in men che non si dica. Ancor mi domando come abbian fatto. Non emetteo suono alcuno. Tutto ciò che si udiva era uno bizzarro cigolio provenire tutt’intorno, quasi come se qualcuno stesse levandosi l’armatura. Sguainai la spada. La mia lama fendea l’aria come le ali d’un usignol, defletteo i colpi dei loschi figuri e rispondeo con colpi ben assestati. La vittoria era ancor una volta mia. Mi apprestai a controllar li beni che celavano i corpi privi di vita de li miei assalitori. Fortunatamente trovai un bel gambesone e lo indossai a lo istante. Mentre mi appropriavo de li orecchi per riscuoter la taglia pendente su le teste de li banditi, qualcosa mi afferrò la gamba. Mi voltai e affondai la spada.
Era senza dubbio un bandito, ma avea vesti misere e seco non portava armi. Senza alcuno dubbio lo aveo disarmato e ferito durante il marasma della lotta senza rendermene conto, tanta è la mia maestria. Prima di ripartire, sentii un certo languore nello stomaco. Lo sguardo alzai a lo cielo e mi accorsi che era mezzodì, infatti lo sacro lume arse li occhi miei. Dopo che la vista mi fu novamente concessa, mi accinsi a banchettar da lo calderone ove li banditi avean preparato un delizioso stufato. Comprendo perché eran visti come criminali. La loro cucina rapia lo core.
Montai novamente in sella e feci ritorno a Rattay per riscuoter la taglia da lo capitano Bernardo. Si congratulò e mi porse la mia ricompensa. Dieci groschen. Somma adeguata per aver solo portato de li orecchi. Mi diressi verso la piazza, quando una sudicia mugnaia mi fermò per chiedermi se aveo visto suo marito a lo accampamento de li banditi. Dissi che in quello sporco loco aveo visto solo vili criminali che strisciavan ai miei piedi pur di aver salva la vita, alcuni per giunta vestiti con stracci logori. E poi che anche lo mio dovere da buon cittadino era svolto, tornai in taverna e vidi che questa volta a lo tavolo da giuoco sedea Reginaldo, de li beoni l’araldo.
Financo lui era sconvolto dall’effetto de lo liquore, così mi sedetti e puntai trentasei groschen e qualche picciolo. Dopo una mia pria mano fortunata, toccò a Reginaldo, lo quale alzò lo boccale contenete li dadi talmente in alto che cadde indietro, sbattendo prepotentemente la capa su lo selciato. Vedendo che dopo svariati minuti non si riprendea, lasciai la taverna, scontento. Avrei potuto sottrare lo denaro puntato a lo mio avversario, ma sono tanto gentile e tant’onesto che sortii senza derubarlo. L’ora era tarda e la stanchezza si facea sentire, così mi diressi a li miei alloggi. Durante lo cammino vidi persone che correan in direzion de la taverna. Il giovedì de lo storione è proprio apprezzato da codeste parti. Arrivato a la mia camera mi svestii e mi sedetti a guardar lo foco che ardea ne lo camino. Poi mi distesi e la stanchezza ebbe lo sopravvento.
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