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Unorthodox – Recensione della nuova miniserie Netflix

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Su Netflix dal 26 marzo, “Unorthodox” racconta la storia di Esty, una giovane in fuga dalla comunità ebreo ortodossa di Williamsburg, New York. Un viaggio verso la libertà, che prende spunto da un’autobiografia. 

Unorthodox

Unorthodox, su Netflix una storia potentissima

È la storia di una liberazione, ma anche il racconto di quanto sia difficile convivere con la propria fede, con i propri simili, con il passato e quindi con se stessi. Unorthodox è una miniserie originale Netflix, disponibile sulla piattaforma streaming dal 26 marzo. Sono quattro episodi da cinquanta minuti, abbastanza intensi da riuscire a coinvolgere (e travolgere) lo spettatore attraverso la fuga, il terrore, la felicità ed il coraggio di Esty, la protagonista. È la prima serie girata quasi interamente in yiddish che compare su Netflix. La lingua permette di entrare in sintonia con i personaggi, muoversi all’interno della comunità ultraortodossa da cui la giovane scappa, comprenderne davvero l’identità. Esperimento riuscito prima solo con Hunters, successo di Amazon Prime Video in cui lo yiddish ha fatto di recente il suo debutto.

Unorthodox

La miniserie prende liberamente spunto dall’autobiografia di Deborah Feldman, Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots. La scrittrice ebreo-tedesca, ora libera, ha raccontato nel libro la storia della sua fuga verso Berlino dal quartiere di Williamsburg, Brooklyn, New York. Lì era costretta a vivere nel rispetto delle regole ultraconservatrici della comunità di cui faceva parte. Diktat estremi che andavano oltre la fede, ricoprendo ogni parte della sua vita, sia nella sfera pubblica che in quella privata. L’autobiografia della Feldman ed ora questa fortissima serie Netflix aprono gli occhi sulla realtà delle comunità ebreo ortodosse, le più religiosamente radicali, dove è vietata l’istruzione femminile, l’utilizzo degli strumenti elettronici, ogni contatto con la vita reale che avanza. Dove le donne sono venerate come mezzo di procreazione, per riportare in vita i 6 milioni di ebrei uccisi dall’Olocausto. Una ferita storica enorme, che però, come dimostrano questa ed altre biografie, rischia di creare nuove ed innumerevoli ferite.

Unorthodox

Esty e la sua fuga da New York a Berlino, verso la libertà

Ferite come quella di Esther Schwartz, protagonista di Unorthodox, a cui infilare i jeans, prendere lezioni di pianoforte, mostrare al mondo i propri capelli, è severamente vietato. La giovane, interpretata dall’attrice israeliana Shira Haas, ci prova ad essere all’altezza delle aspettative. Vuole sposarsi, dare alla luce un figlio, assecondare la volontà della sua babby, la nonna paterna a cui è molto legata. Ma vuole anche imparare a suonare, ricevere amore, sentirsi compresa. Nulla di tutto ciò accade e allora Esty decide di scappare per salvarsi: da un marito che, succube della madre e delle regole della comunità ultraortodossa, ha appena chiesto il divorzio a causa del figlio che tarda ad arrivare. Da New York, una città grandissima che contiene universi, ma è troppo piccola e vicina alla sua famiglia per poterli scoprire. A diciannove anni arriva a Berlino sulle tracce della madre, che come lei si era liberata dal fardello della comunità di origine. Non la ritrova subito, ma nel frattempo trova se stessa. Incontra la musica, degli amici che si prendono cura di lei, forse l’inizio di un amore. Assaggia una vita nuova, con la sua testa rasata sfiorata dal vento, mentre quella vecchia continua ad inseguirla (e spaventarla).

Unorthodox

La storia di una rinascita e di una liberazione

C’è una scena molto intensa in Unorthodox, quella in cui Esty si sfila i collant, si toglie la parrucca e si immerge lentamente nel lago in cui, negli anni dell’Olocausto, erano stati uccisi molti ebrei che tentavano di scappare dai nazisti. È un momento di purificazione e di accettazione: il modo migliore per ricordare i morti innocenti è vivere liberi. Celebrando quella stessa libertà di cui loro erano stati privati. La miniserie Netflix è molto bella anche per questo motivo. Perché sì, ci sono bravi attori, una bella colonna sonora, un’ottima fotografia. Ma soprattutto c’è molta complessità, quella per cui non si condanna nessuno. Non la comunità ebreo ortodossa da cui Esty fugge, non il marito, buono ma incapace di comprendere la situazione, non la madre che l’aveva abbandonata, anche se costretta. Ed infine non la giovane protagonista, che capisce a sue spese che si può credere ed essere liberi allo stesso tempo, senza rinnegare le proprie origini, proprio come desiderava lei.

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